Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore
Bàrnaba raccontò agli apostoli come durante il viaggio Paolo aveva visto il Signore. At 9, 27
A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea. Dal Sal 21 (22)
Questo è il suo comandamento: che crediamo e amiamo. Cf 1Gv 3, 23
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 15,1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Parola del Signore.
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Personaggi, tempo, luogo, contesto, testo parallelo
Personaggi: Gesù, discepoli, Padre, agricoltore, vite, tralcio/i, fuoco, frutto
Tempo: In quel tempo. È un’espressione generica che introduce la lettura del brano evangelico.
Luogo: Non è indicato un spazio circoscritto riconducibile a entità geografica o topografica ma porta la nostra immaginazione alla vista di un paesaggio campestre con la vigna e l’agricoltore.
Contesto: Cosa c’è attorno al nostro brano ovvero “il contesto”. Il contesto del brano è quello dei capitoli 13-17, che contengono l’insegnamento privato di Gesù ai discepoli. Si tratta di un vero e proprio testamento (un genere letterario presente sia nell’AT che nel NT: si veda ad esempio l’addio di Paolo agli anziani di Efeso, At 20,17-38). Questi capitoli iniziano con l’episodio della lavanda dei piedi. Sono presenti i temi giovannei della vita e della luce, ma fra tutti centrale è quella dell’amore come agape, l’amore che si fa dono della vita. Questo lungo discorso riguarda i discepoli di tutti i tempi, dunque anche noi. E riguarda il tempo che va dalla Risurrezione alla parusia, cioè alla fine dei tempi.
Testo parallelo: La nostra pericope (breve passo tratto dal Vangelo) si trova solo in Giovanni
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Lettura del brano (ovvero la “lectio”)
L’allegoria della vite e dei tralci è decisamente significativa e attinge abbondantemente alla tradizione anticotestamentaria. L’intero capitolo 15 può essere diviso in due parti: 1-8 l’allegoria* della vite; 9-17 la legge dell’amore – Rimanete nel mio amore – quello che possiamo considerare il discorso di spiegazione dell’allegoria (sarà oggetto della lectio di domenica prossima).
Cerchiamo ora di capire come metterla in pratica a livello personale e a livello comunitario. Tutto si concentra nel verbo “RIMANERE” (utilizzato in questi pochi versetti per ben sette volte) e nel conseguente “PORTARE FRUTTI”. Cosa significa dunque rimanere in Cristo? Quali sono i frutti che il Padre attende?
15,1 «Io sono la vite vera»: la formula “io sono” non indica una semplice rivelazione/identificazione, ma anche una promessa e un impegno. “Io sono” è il nome divino, quello con cui Dio si era presentato a Mosè nell’episodio del roveto ardente (Es 3,14). Gesù sta dicendo di se stesso che è Dio.
L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (vedi Is 5,1 Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle; Ger 2,21 Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?)
Con questa allegoria (trasferimento di significato) Gesù illustra la sua profonda e vitale unità con i discepoli e con la Chiesa.
15,4 Rimanete in me: “rimanere in” nel vangelo di Giovanni indica la reciproca appartenenza di Gesù e dei suoi discepoli, che costituisce un’unica sfera di vita retta dall’amore, a imitazione della reciproca immanenza (l’esistenza dell’uno presuppone l’esistenza dell’altro) del Padre e del Figlio.
In Giovanni la vite è Gesù stesso ed è per questo che essa può finalmente dare i frutti sperati. Il popolo/chiesa può finalmente portare frutto solo “se rimane in Cristo”, se resta nel suo amore. Senza di lui non possiamo portare frutti di vita e di amore. Questo nuovo popolo fa esperienza della persecuzione/prova (il Padre “pota”) e questa è condizione di maggiore fecondità. Ma c’è anche la responsabilità dell’accoglienza e della disponibilità a restare in lui. Questa non è garantita e c’è il rischio di smarrirsi e, restando lontani da lui, si diventa ramo secco e improduttivo, buono solo per essere bruciato. Secco e senza vita! Criterio di giudizio sono i frutti: sono quelli dell’amore vicendevole, massima testimonianza dell’amore di Dio in noi, e della gioia che ne deriva. Rimanere in lui significa avere un centro ben saldo dal quale attingere il senso della vita, l’amore vero, la gioia senza fine. Questo centro – ci dice il vangelo di Giovanni – è solo Gesù, la vite vera, cioè unica.
Esercizio di contemplazione…
- Trova un posto tranquillo, fai silenzio, dedica alla preghiera almeno una 20 di minuti;
- Leggi e rileggi il Vangelo e fermati dove senti attrazione o repulsione, gioia o sofferenza. Stai lì, senza domandarti perché. Lascia solo che quel “sentire” ti parli, ti illumini;
- Resta in silenzio anche se desidererai scappare. Al termine della preghiera annota su un foglio quello che senti e quello che hai deciso di vivere nei prossimi giorni. Non credere ai grandi propositi, lascia spazio ad un piccolo passo possibile;
- Ringrazia Gesù che ti viene a cercare anche quando tu sei altrove.
Preghiamo
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vite vera, confermaci nel tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri,diventiamo primizie di un’umanità nuova. Per Cristo nostro Signore. Amen.
La benedizione di Giacobbe in Gn 49,10-12 descrive il tempo messianico con i colori dell’abbondanza dei frutti della vite: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte».
Il canto della vigna di Isaia in Is 5,1-7 dove il profeta evidenzia lo stridente contrasto tra l’amore di Dio per il suo popolo e l’incapacità di Israele di corrispondervi: «Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi».
Dunque, la vite/vigna designa Israele in quanto popolo di Dio e ne sottolinea l’appartenenza al Signore; da una parte c’è la cura di Dio e dall’altra un’ostinata sterilità (la vigna non porta frutto!!)
* L’allegoria è una figura retorica per cui, in letteratura, qualcosa di astratto viene espresso attraverso un’immagine concreta. L’allegoria è spesso usata anche in altri campi artistici, dalla pittura alla scultura alle altre arti figurative. Il termine deriva dal greco antico αλληγορία, composto da ἄλλος (‘altro’, ‘diverso’) e ἀγορεύω (‘io parlo’), con il significato di ‘dire qualcosa di diverso dal senso letterale’. Un esempio di allegoria è il seguente: “Gli era caduta una montagna sulle spalle e questo lo faceva essere sempre triste e pensieroso.” La montagna non è quella alla quale si pensa esplicitamente, ma il simbolo di un peso enorme da sopportare psicologicamente.